Le puntate precedenti: 1, 2, 3, 4, 5, 6
Bella e corribile la Val Ferret svizzera. Sì, ma dopo 120 km si riesce ancora a correre? Un po’ sì un po’ no, per quanto mi riguarda. E che cosa si vede nella Val Ferret svizzera? Dipende dalla velocità a cui stai andando. Procediamo, allora, tanto la strada riparte in discesa e la tentazione di ritirarsi è stata vinta, rimandata a Champex, dove il tendone del ristoro è più grande e più bello.
Da La Fouly a Champex-Lac
Sì, la Val Ferret svizzera, da La Fouly a Praz de Fort, non è certo impegnativa, si corre quasi sempre in leggera discesa. Non è quindi il terreno più congeniale per me che amo le pendenze forti, quindi nel corso degli anni ho imparato a giocare in difesa e a passare dalla corsa al passo quando sento di faticare eccessivamente. Nel 2009 e nel 2011 ho però trovato una cosa che mi ha rinfrancato non poco, cioè i ristori non ufficiali organizzati dai bambini dei paesini lungo la strada. Ho sempre cercato di onorarli fermandomi a bere da tutti almeno un goccio d’acqua. Nel 2013 però non li ho trovati. Che cosa era successo? I bambini erano cresciuti e non ne avevano più voglia? Ci misi un po’ a darmi una spiegazione: nel 2009, avendo perso molto tempo nella Val Ferret italiana, ero passato di pomeriggio, così come nel 2011, anno della partenza posticipata; nel 2013 invece ero stato veloce ed ero passato all’ora di pranzo e nel 2014 addirittura prima, mentre i bambini svizzeri al sabato a fine agosto erano a scuola. L’ideale è quindi percorrere questo tratto nel pomeriggio, se si vuole ricevere la carica dei giovani tifosi.
Dopo Praz de Fort si riprende la salita con uno strappo iniziale abbastanza ripido. A un certo punto si passa per un sentiero che potrebbe emanare qualche gradevole profumo e che si chiama appunto “sentier des champignons”. Alla fine di una salita non particolarmente lunga – ma dopo così tanta strada tutto potrebbe apparire lungo, specialmente in caso di sonno – si arriva finalmente a Champex-Lac.
Potrebbero assalirvi pensieri scoraggianti. La base è grande, c’è gente, c’è fatica, ma c’è anche allegria, si mangia, sembra non essere un brutto posto per ritirarsi. Fai anche due conti: la distanza rimanente è maggiore di una maratona, ci sono ancora 3 salite, almeno due delle quali molto ripide e 3 discese (la seconda con tratti piuttosto ripidi e l’ultima con passaggi bellissimi tra le rocce ma poco riposanti dopo 160 km). Che cosa può farti andare avanti? Oltre alle cose che ho detto nelle puntate precedenti, puoi ricorrere ad altri stratagemmi. Per esempio puoi pensare che sei a circa tre quarti della distanza e del dislivello totale, quindi se stessi facendo una gita normale, saresti a metà della discesa. Va bene, questo trucchetto non è granché. Pensa che ti attende una bella passeggiata lungo il lago. No, non la potresti fare da ritirato, perché dopo il ritiro non ne avresti la forza, ti cacceresti a dormire da qualche parte e al risveglio non muoveresti più le gambe. Superato il lago c’è poi un lungo falsopiano durante il quale potrai riprenderti. Insomma, dormi pure un po’, ma riparti e ricorda sempre una cosa: guarda i giapponesi!
Da Champex-Lac a Vallorcine
Hai mangiato, hai dormito, probabilmente hai anche sistemato la lampada frontale; sistemati pure le scarpe e sbatti i calzini per togliere gli eventuali sassolini. Nel 2014 a Champex ho vissuto un momento evangelico quando la mia allenatrice, maestra Sonia, mi ha pulito i piedi con una salvietta: chiaro che dopo una tale epifania di evangelica amicizia non puoi non dare tutto quel che ti rimane.
Dicevo del lungo tratto in falsopiano, che stranamente non soffro molto, anche se sembra eterno, ma forse perché ho sempre saputo che dopo mi avrebbe atteso la famigerata salita di Bovine. Come avevo scritto per il Col Ferret, potrei ripetere quel che ho pensato di Bovine fino a quando non ho fatto la CCC nel 2008: salita ripida, ma non quella cosa terribile che mi aveva raccontato mia sorella che l’aveva percorsa per la prima volta alcuni anni prima di me. Invece, in gara, alcune volte sono a salito a Bovine che sembravo quasi un ubriacone. Va anche detto che da alcuni anni il sentiero è stato modificato, infatti non si affronta più il vecchio sentiero pieno di gradini e radici, ma ne è stato tagliato uno che sale con dei tornanti regolari, seppure assai ripidi. Cercate di andare su regolari, se usate i bastoncini datevi il ritmo, se siete come me, camminate composti con le mani dietro la schiena, se la fatica è grande, appoggiate le mani sulle cosce, ma la cosa più importante è cercare di non barcollare. Comunque, anche il barcollamento si può superare. Arrivati a Bovine, dovreste trovare, appunto, i bovini e, soprattutto, le loro caccone che renderanno i vostri piedi lustrati con cura a Champex delle fetide zampe che vi faranno odiare da chi vi sarà vicino quando vi toglierete le scarpe. Un tempo avreste trovato anche il ristoro, che adesso non è più prima di incominciare la discesa, bensì dopo.
La discesa da Bovine non è particolarmente faticosa e soprattutto offre il vantaggio psicologico di poter essere considerata in 2 spezzoni, il primo fino al Col de la Forclaz e il secondo fino a Trient. Il primo pezzo richiede cautela nei lunghi traversi poiché si tagliano dei pendii anche molto ripidi sui quali una caduta potrebbe essere pericolosa. Nulla di difficile, il sentiero è facile, ma la stanchezza non deve giocare brutti scherzi. Nel tratto dopo la Forclaz, invece, il pericolo maggiore è rappresentato dagli attraversamenti della strada asfaltata. A Trient si vede ormai gente disfatta anche tra chi sta andando forte. Nel 2011, dopo una risalita molto faticosa da Martigny a La Forclaz (sì, proprio dai 400 metri sul livello del mare di Martigny!) ero con le gambe a pezzi, ogni passo in discesa era un dolore e l’atleta che stava correndo (si fa per dire) con me da parecchi chilometri non era messa tanto meglio. Ma continuammo, bastò far finta che il dolore alle gambe fosse inesistente. Se siete davvero stanchi e la motivazione scarseggia, tenete conto che il cancello orario dovrebbe essere fissato per la mattina di domenica quando c’è già luce, quindi avete la possibilità di affrontare il seguito della gara con la luce.
La salita successiva, Les Tseppes o Catogne, è meno ripida della precedente e della seguente, ma è comunque una salita di circa 800 metri in 5 chilometri e il fondo pietroso, seppure non impervio, ormai si fa sentire. Su questa salita ho sperimentato molte cose. Nel 2008 alla CCC, persi delle posizioni, cosa che non mi capitò più negli anni successivi (appartengo alla categoria dei “mangiatori di cadaveri”: man mano che i chilometri aumentano, gli altri cedono, mentre io recupero posizioni); nel 2009 recuperai qualche posizione, ma rischiavo di addormentarmi mentre salivo; nel 2011 riuscii a staccare gente che stava andando molto forte; nel 2013 andai come un treno (si fa per dire, Thévenard impiegò oltre mezzora meno di me – lui sì che andò come un treno); nel 2014 andai ancora meglio e, soprattutto, compresi veramente l’irriducibilità dei giapponesi. Appena dietro di me c’era un giapponese che pareva barcollare, sembrava un personaggio da “Mai dire banzai”, ma non riuscivo a staccarlo. Eppure stavo spingendo. Era Hiroaki Matsunaga, atleta 5 volte finisher nei primi 100 e con piazzamenti ancora migliori nella CCC e nella TDS, un vero duro.

La discesa a Vallorcine a mio avviso non è banale, non solo per la stanchezza sempre più grande. Prima di tutto è probabile che l’affronterete con il buio e ormai sappiamo bene che le discese con il buio sono più difficili, specialmente se c’è un po’ di nebbia. Ma pure senza nebbia, anche il vapore acqueo che esce dalla bocca può essere fastidioso, perché la luce della frontale può creare un effetto di scarsa visibilità quando lo colpisce. In più, a un certo punto il sentiero incontra le piste da sci e questo può essere disorientante, così come lo sono alcuni lunghi traversi una volta che si entra nel bosco.
Usciti dal bosco, una rampa erbosa ripida conduce a Vallorcine. Impossibile ritirarsi, ormai è fatta, a meno che non cadiate disastrosamente sull’erba.
Vallorcine – La Flégère
Ormai ci siete, a parte il fatto che mancano 1200 metri di salita e 15 chilometri. Una gita Vallorcine – Chamonix in effetti non sarebbe un’escursione brevissima, normalmente sarebbe roba da riempire una giornata, ma siamo all’UTMB e i consueti punti di riferimento sono un po’ diversi. Quindi, ormai è fatta, ma la fatica potrebbe essere ancora tantissima.
Riposatevi, bevete il caffè e il brodo, mangiate, chiacchierate, avvisate i parenti che siete vivi e tra qualche ora dovreste arrivare e ripartite. Fino al Col des Montets la salita è appena accennata. Nel 2014 camminavo a un passo molto sostenuto, tanto che il futuro amico giapponese, che nel frattempo era riuscito a rimettersi a correre, si era stupito di aver fatto fatica a superarmi correndo (ma intanto mi aveva superato). Correre qui è per pochi, bisogna davvero averne e a questo punto solo pochi sono in grado di correre in salita.
Al Col des Montets momento di meditazione: da ragazzo era il mio posto preferito per arrampicare, all’epoca in cui non esistevano ancora i crashpad prendevo la corriera per Chamonix e facevo l’autostop per venire a divertirmi sui massi e poi riempirmi di croissant una volta finito. Ora è però il momento di correre, pardon camminare.
La salita alla Tête aux vents è stupenda, camminare sul massiccio delle Aiguille Rouges è una delle cose più belle che esistano per me. Se però non amate i sentieri pietrosi, ignorate la frase precedente. La fatica qui può arrivare a livelli allucinanti. Letteralmente allucinanti, visto che su questa salita, come ho già scritto, ho avuto l’esperienza delle allucinazioni da stanchezza. Ma, quando sono stato meno stanco, ho anche visto cose meravigliose, come un bello stambecco a pochi metri di distanza verso le 7 e mezza di sera e soprattutto un incredibile Dente del Gigante incorniciato dalle nuvole con le ultime luci del giorno. Credo che sia stata l’unica volta in cui son stato vicino a fermarmi in gara per tirar fuori il telefono e scattare una foto.
Sulla Tête aux vents ho visto in azione un’altra atleta dura, anzi durissima, la svizzera Andrea Huser. L’avevo superata a Praz de Fort e da quel momento non ero riuscito a staccarla, mi si riavvicinava e ai ristori magari ripartiva prima di me. Su quest’ultima salita spingevo più che potevo, ma non riuscivo a staccarla di più di un paio di minuti. Una grande, infatti dall’anno successivo ha cominciato a vincere a tutto spiano ed è diventata una delle migliori ultratrailer al mondo.

La salita finisce e si cammina sui mammelloni di granito. È un momento che per me vale tutta la gara. Ma bisogna continuare, c’è la discesa, una discesa sulla quale normalmente mi divertirei da morire, mentre ora devo solo cercare di non morire. Il sentiero è molto pietroso e la vostra agilità potete immaginarla, non correte rischi inutili. Una lieve risalita (ma una risalita ormai non può essere lieve) e siete a La Flégère. L’adrenalina è a mille e di solito mi limito a salutare i volontari e non bevo neppure. Altri sono stati invece fermi per decidere se ritirarsi o continuare, altri ancora si sono messi a leggere il giornale. Ognuno ha la sua tattica, a questo punto quella buona è quella che vi conduce al traguardo.
La Flégère – Chamonix
“Aller, aller, aller, la dernier c’est La Flégère!”. È notte, sto per concludere la CCC del 2008 e da lontano sento delle ragazze che gridano queste parole. Poi ti chiedono perché fai questa gara! Ti senti non solo carico di adrenalina, ma persino bello.
“Ho un’ora e sette minuti per farcela, ho un’ora e sette minuti per farcela, l’altro giorno Luca l’ha fatta in 41 minuti”. Faccio partire il cronometro, accendo il frontale e spingo il più possibile.
Questo è avvenuto nel 2014, quando mi resi conto che avevo a portata di mano il mio obiettivo cronometrico segreto. Ce la feci in 51 minuti, non male, considerando che ormai era buio e avevo acceso la frontale. Per un discesista quest’ultimo tratto può essere trionfale, ma potrebbe anche essere drammatico. Alla CCC, nonostante le tifose della Flégère, a un certo punto caddi in discesa. Crampi, freddo, confusione, poi ripartii molto lentamente, fino a quando un altro genovese mi raggiunse e mi spronò ad andare insieme per cercare di arrivare nei primi 100. Perché ero caduto? Perché capita, perché si è stanchi, perché è notte, perché ci sono le radici che sporgono. Ma anche perché appena prima una persona mi aveva scattato una foto. Dico allora a chi scatta foto di notte sul sentiero: non fatelo mai di fronte, usate il flash solo alle nostre spalle, altrimenti ci fate correre dei rischi davvero grandi, ci abbagliate e ci distraete!
Torniamo alle cose belle. Ormai non vedete l’ora di arrivare, ma laggiù Chamonix sembra non avvicinarsi mai. Se le gambe girano e siete coraggiosi potrete recuperare ancora posizioni, nel 2013 mi tolsi la soddisfazione – ma lo scoprii solo a posteriori – di superare il vincitore di un’edizione passata, e, finalmente entrate a Chamonix.
Quando siete lungo l’Arve aggiustate il passo.
Qui mi sono sentito un imperatore, mi sono sentito bello elegante e veloce come Rudisha che fa il record del mondo degli 800 in finale a Londra.
Poi cominciano le transenne. Di notte ci ho trovato dietro poche persone, l’ultima volta ne ho trovate parecchie. Se arrivate di domenica a mezzogiorno deve essere entusiasmante.
Poi vedi volti cari e vabbè.

Al traguardo potresti essere salutato e abbracciato anche da Madame Poletti e ne sei contento come se fosse Nicole Kidman. Poi sei in un frullatore. Il gilet da finisher, che a volte ti ha motivato per tener duro.

Il ristoro accanto all’arrivo con Atma Singh che ti offre il suo Yogi Tea.

Prima ancora di spegnere la lampada, si telefona a Sonia, se non è al traguardo ma sul percorso a seguire altri compagni di squadra.

TI copri e pensi che sarebbe bello rifarlo, magari con loro.

Fine?
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