Dieci monti (7-8). Polluce 4091 mt. e Dente del Gigante 4014 mt.

Ci avviciniamo alla fine dell’elenco e quindi è il momento di ricordare due dei pochi risultati alpinistici dei quali mi posso dichiarare fiero.

Polluce. Potrei cominciare con riferimenti alla Grecia antica: due fratelli vanno alla conquista del Castore e del Polluce, i Dioscuri della mitologia.

Potrei pure scegliere dei riferimenti eroici: i Gemelli del Monte Rosa per me e mio fratello come i due Gasherbrum per Messner e Kammerlander.

In realtà eravamo semplicemente in forma, ma troppo scarsi e paurosi per far la traversata dei Lyskamm, così nell’estate del 1991 ci indirizzammo su quella più abbordabile Castore-Polluce.

Lo scivolo ovest del Polluce

Avevo già salito un paio di volte il Castore, un quattromila che rientra sicuramente tra quelli facili, ma non tra i facilissimi come il Breithorn e la Punta Gnifetti. La lunga cresta, infatti, seppur priva di difficoltà, richiede di guardare bene dove si mettono i piedi. Il Polluce invece, è qualcosa di più di una camminata su ghiacciaio, perciò organizzammo la salita con una certa attenzione. Per prima cosa c’era da scegliere l’itinerario: via normale o scivolo ovest? Nel dubbio, scivolo in salita e normale in discesa. Per l’occasione aggiornammo pure l’attrezzatura: per me, che sarei andato da capocordata, due piccozze, la fedele Camp Gabarrou e la Grivel Novanta Gradi, attrezzo da cascata del quale non ero degno, ma che avevamo trovato tempo addietro a prezzo stracciato in un negozio neppure troppo specialistico ad Aosta; mio fratello invece aveva una vecchia Grivel modulare, una delle prime, per la quale acquistammo una lama a banana, che da allora è rimasta montata (chissà dove è finita la vecchia lama).

La Grivel 90 Gradi: talmente da ripido che non aveva il puntale, una novità per l’epoca!

Il 19 agosto – tra un po’ spiegherò perché riesco a risalire alla data precisa – partimmo per il Rifugio delle Guide di Ayas al Lambronecca. Ricordo bene che mi piacque l’idea di restare in calzoni corti nel breve tratto di ghiacciaio che si affronta (o che forse si affrontava, visto quanto i ghiacciai hanno continuato a ritirarsi in questi anni). Alla mattina arrivammo velocemente all’attacco dello scivolo e pure sul tratto ripido andammo molto veloci procedendo sempre di conserva. Saggiamente non avevamo il casco, ma tanto ero io che rischiavo di staccare pezzi di ghiaccio da buttare in testa a mio fratello. Ma non ne staccai, perché il pendio era di neve dura, quindi con le mie due picche e i ramponi dovevo solo pensare a divertirmi. Anche in discesa lungo la normale ce la cavammo bene, se non ricordo male in un punto buttammo pure giù una doppia per fare più veloci.

Arrivati al Colle di Verra, la prima cima era in saccoccia e mancavano i 400 metri della parete ovest del Castore, anche quelli in ottime condizioni e quindi solamente faticosi, ma non difficili. Pochi metri di cresta sottile e seconda cima della giornata.

In cima al Castore

A quel punto mancavano semplicemente 2600 metri di discesa fino a Saint Jacques, che sarebbero stati meno divertenti del previsto perché Andrea cominciò ad aver male ai piedi. Al Rifugio Quintino Sella, fummo avvistati a nostra insaputa da Paolo e Gabriele, che incontreremo nel prossimo episodio, telefonammo a casa per far sapere che eravamo vivi e mia madre, piuttosto scossa, mi disse che in Unione Sovietica stava accadendo qualcosa di grave. Non si sapeva dove fosse Gorbaciov e a Mosca era in corso un colpo di stato. Furono giorni di grande apprensione dai quali Eltsin uscì come un salvatore, mentre l’URSS giunse al termine della sua storia e purtroppo Gorbaciov uscì di scena. Tra la valle di Gressoney e la Val d’Ayas, invece, i Montani continuavano a scendere, Alessandro abbastanza tranquillo, Andrea con un gran male ai piedi: anche per i suoi scarponi, come per l’Unione Sovietica, era arrivato il capolinea.

Le pareti ovest di Polluce e Castore

Dente del Gigante. Come penso che sia accaduto a molti, da bambino il Dente del Gigante è stato uno dei primi monti che ho imparato a riconoscere. A un certo punto ho anche capito che era possibile salirlo, soprattutto quando – avevo 13 anni – mio padre lo salì con una guida. Così cominciai a considerarlo come una salita da fare prima o poi e cominciai a studiare le relazioni della salita. La salita però arrivò in modo, non dico inaspettato, ma neppure programmato.

Nell’estate del 1993 cinque amici erano in giro per il Monte Bianco e nel giro di pochi giorni avevano messo nel carniere un po’ di salite, compresa la Cresta di Rochefort, che con il Dente condivide la parte iniziale fino alla Gengiva. Ci incontrammo a Dolonne e da un giorno all’altro si decise di andare sul Dente.

Gli amici, dopo giorni di accampamento in alta quota, piantarono le tende nei prati e al mattino ci alzammo per andare a prendere la prima funivia per il Rifugio Torino. Uno, Andrea, probabilmente dormì male, oppure non si sentiva sufficientemente rilassato o motivato e restò a valle, così rimanemmo 3 cordate da 2: io con mio fratello, e poi Paolo, Enrico, Riccardo e Gabriele. Il meteo era per fortuna perfetto, cosa molto gradita per una salita come il Dente, parafulmine del massiccio del Monte Bianco.

Il Dente del Gigante visto dall’Aiguille de Toula

Fin quando si trattò di camminare, Andrea ed io arrancammo: i nostri amici erano allenatissimi dopo i molti giorni trascorsi tra i 3000 e i 4000 metri, mentre noi 2 eravamo reduci da un campo in Liguria fisicamente poco impegnativo. Per fortuna, dopo un po’ cominciarono le difficoltà con un po’ di misto per raggiungere la Gengiva. Finalmente all’attacco, mi tolsi gli scarponi e indossai le scarpette, delle ballerine La Sportiva con una specie di grosso elastico di gomma che spingeva il tallone verso la punta, un modello che non ebbe molta fortuna ma con il quale mi trovavo bene.

Chi è a digiuno di alpinismo potrebbe pensare che il Dente del Gigante sia una grande salita – e per me lo è stata -, ma se si guardano le cose oggettivamente, la via normale è una salita modesta e per di più addomesticata dalle corde fisse sui tiri più difficili. Il mio proposito fu allora quello di salire in libera, cosa che mi riuscì, a parte un movimento in cui cedetti alla tentazione di servirmi del canapone. Se infatti le difficoltà tecniche per chi sa arrampicare non sono nulla di pazzesco, quello che è spaventoso è il vuoto. Quando, alla fine del primo tiro, entrai in piena parete, mi ritrovai un buon migliaio di metri sotto il sedere, perciò, come consigliava il grande Reinhard Karl nel suo Montagna vissuta – Tempo per respirare, il più bel libro di montagna che abbia mai letto, misi una specie di schermo che mi impediva di vedere al di sotto dei miei piedi. Con questo accorgimento riuscii a godermi pienamente la placca Burgener: io me la ricordo di una roccia bellissima e neppure troppo levigata dalle migliaia di passaggi, ma può darsi che la nostalgia giochi dei brutti scherzi alla memoria. Dietro di me, mio fratello saliva anche lui tranquillo, sia pure gravato dallo zaino che gli toccava portare in quanto secondo di cordata. Beh, giusto così, in fondo quello che rischiava di volare con il rinvio distante magari 10 metri ero io (in altre parole, era assolutamente vietato sbagliare). Intanto la via, che eravamo stati tra i primissimi ad attaccare, si affollava e gli amici restavano impelagati nel traffico da Dente del Gigante, con tanto di pedate ricevute sul casco. Arrivati all’anticima, seguì l’esposta brevissima discesa e risalita fino alla vetta dove si trova la piccola statua della Madonna tutta bucherellata dai fulmini. Aspettammo gli amici e poi cominciò la discesa, che ad un certo punto diventò complicata. Vuoi la stanchezza, vuoi un po’ di inesperienza, non tutti riuscivano a calare le doppie rapidamente, fatto sta che ci ritrovammo alla Gengiva a pomeriggio inoltrato, quando non c’era più nessuno. Soprattutto, era ormai troppo tardi per sperare di rientrare con l’ultima funivia. Giù a La Palud, Andrea ci aspettò fino a quando l’impianto chiuse e, non essendo ancora epoca di telefonini (o, meglio, esistevano da pochissimi anni, ma nessuno di noi lo aveva), non deve essere stato troppo piacevole. Scesi dalla Gengiva e usciti dalle difficoltà, Gabriele andò come un treno al Rifugio Torino per avvisare a valle che avremmo dormito in Rifugio.

Non so bene in quale modo un fifone come me sia riuscito a salire sul Dente da capocordata, evidentemente all’epoca ero molto fiducioso nelle mie capacità, oggi il solo pensiero di trovarmi lassù con quel vuoto mi fa chiudere la bocca dello stomaco. Non credo che sarò mai capace di tornare lassù da capocordata.

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