Starbucks: dell’ambiente oltraggiato e del tempo mal speso

“I” Zanzoni sono dei nobili, sì, ma illuminati, un po’ come Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu oppure come il visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville, perciò, dopo essersela presa con Amazon, hanno qualcosa da ridire anche su Starbucks.

Nel 2017, in America, mentre bevevo un caffè espresso da Starbucks, ho conosciuto il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali. Che esistesse lo sapevo benissimo, ma un conto è sapere una cosa, altra cosa è, per dirla con Dante, intenderla “per prova”.

Lasciamo però stare le frasi ad effetto che uniscono stilnovo e sinistra extraparlamentare e andiamo sul concreto, partendo dalla recensione gastronomica. Il caffè di Starbucks non è cattivo. È vero che io non disdegno neppure i beveroni di caffè lungo, al punto che non solo li ho bevuti da Starbucks, ma a volte me li preparo pure a casa, però devo ammettere che pure l’espresso della catena americana era abbastanza buono, migliore di quello che si beve in molti bar e soprattutto in molti ristoranti in Italia.

Ma che cosa ha di particolare Starbucks? Almeno due cose.

  1. L’onnipresenza. Mi aspettavo ingenuamente di vedere i McDonald’s dappertutto, ma, almeno nelle città in cui sono stato, non era così. A Boston ne ho visto solamente uno, vicino all’albergo dove dormivo; a Providence non ne ho visti, a Newport neppure, a New York invece ne ho visti, ma non tantissimi. È vero che il mio campione di città non è sicuramente rappresentativo: Boston è una grande città benestante, Providence è una città medio-piccola molto benestante, Newport è una località balneare molto ricca, New York sappiamo tutti, almeno in teoria, che cosa è, e inoltre ho girato quasi esclusivamente per Manhattan, che non è sicuramente rappresentativa degli interi Stati Uniti. L’impressione, avuta soprattutto dal McDonald’s di Boston, è che si trattasse di un posto squallidissimo, davvero l’ultima spiaggia, neppure tanto pulita (vi ricordate trent’anni fa le storie sui McDonald’s dai bagni pulitissimi? Ecco, si tratta di trent’anni fa). Starbucks invece è ovunque. Dai bar più curati ai baracchini e ai chioschetti, ovunque ti giri vedi Starbucks, che appare molto più ordinato e piacevole di McDonald’s (tra l’altro ho il nasino talmente all’insù da non aver mai mangiato un burger da McDonald’s, pur essendoci entrato alcune volte e pur avendo vissuto per tre anni in Inghilterra).
  2. La montagna di rifiuti. Non so come funzionino gli Starbucks che hanno aperto in Italia, ma negli States, che fossero dei veri e propri locali, o che fossero dei baracchini, usavano esclusivamente stoviglie usa e getta. Un espresso riempiva il fondo di un bicchierone capace di almeno 300 ml di liquidi che veniva chiuso da un coperchio di plastica con un beccuccio dal quale bere. Tutto questo, finita la consumazione, andava immediatamente gettato.

Una prima considerazione puramente da consumatore è che se spendo circa due dollari per un espresso, pretenderei di berlo in una tazzina vera. Il caffè nel bicchiere di carta, così come qualsiasi bevanda, è automaticamente più cattivo, sarà un fatto di suggestione, ma sfido chiunque a dire il contrario. Inoltre la piccola quantità di caffè di un espresso dispersa in un bicchierone è nuovamente qualcosa di incompatibile con una adeguata, normalissima e quotidiana degustazione del caffè. Quanto al coperchio con beccuccio, probabilmente è incompatibile con la bocca degli italiani che bevono caffè espresso.

Ho parlato di bicchiere di carta, ma in realtà non so di che materiale si tratti, infatti i bicchieri di Starbucks permettono di tenere in mano un beverone (non cattivo, sia chiaro) ustionante per la gola senza scottarsi le estremità. In altre parole, sono delle specie di piccoli termos portatili usa e getta in un paese in cui la raccolta differenziata è, per quel che ho visto, inesistente. Né a Boston, né a Providence, né a New York ho visto un solo cestino o bidone per la differenziata, mentre nella ricca Newport ne ho visti alcuni supertecnologici ma inaccessibili: forse erano riservati ai residenti ma inutilizzabili per i moltissimi turisti. Insomma, ho avuto l’impressione che negli USA la gestione dei rifiuti sia a livelli di terzo mondo, o, se non vogliamo mancare di rispetto ai paesi in via di sviluppo, sia parecchi decenni indietro rispetto ai paesi europei, Italia compresa.

Che cosa c’entra allora il SIM? Beh, vedendo un’azienda presente in ogni strada, in ogni centro commerciale, davvero ovunque, ho avuto la nettissima sensazione di trovarmi di fronte a una macchina da guerra molto più forte degli stati. Di fronte alla serenità con cui questa azienda accumula ed espelle una montagna di rifiuti in gran parte inutili e che qualsiasi scalcinatissimo bar italiano non si sognerebbe di produrre, ho percepito quanto la politica sia destinata ad essere sconfitta dal potere economico. Potrebbero mai gli Stati Uniti varare una legislazione decente sulla produzione di rifiuti se Starbucks non fosse d’accordo? Qual è, anche solo rimanendo nell’ambito della legalità, il potere di lobbying di Starbucks? E, ad essere anche solo minimamente ma realisticamente malpensante, qual è il potere di corruzione di un’azienda del genere? Per usare le parole della traduzione italiana di una battuta di un fumetto che ha per protagonista l’impiegato di una potentissima multinazionale, di fronte alla potenza di Starbucks la mente vacilla.

Uno dei miei libri di formazione, direi nell’estate del 1985

Però Starbucks è tanto buona, quasi come Ronald McDonald.

Banksy, Napalm Mickey

Starbucks ha pensato a ridurre l’inquinamento senza che nessuna legge la obbligasse a farlo. Ha fiutato un po’ di ideologia cool vegan (la definizione è mia, ma è probabile che molti altri l’abbiano inventata, riconosco di non essere molto originale) e ha capito che il grande nemico dell’ambiente non è la rumenta, ma il latte. Sì, perché gli allevamenti di bovini, il metano eccetera eccetera. A parte il fatto che i dati sul contributo degli allevamenti alla produzione di anidride carbonica non sono interpretabili così univocamente come attualmente i più fanno, spingere la clientela a bere latte di avena o di non so che altro al posto del latte vaccino è una mossa talmente smaccata di greenwashing che mi chiedo chi possa essere così stupido da abboccare. Voglio dire: bevi pure il tuo latte di soia, di riso, di avena, di mandorla, ma se ti senti green mentre lo bevi da un bicchiere usa e getta, sappi che nel migliore dei casi sei un ingenuo, nel peggiore un ipocrita.

Ma perché ci piace la bevanda take-away? Confesso che durante le due settimane che ho trascorso in America anch’io ho camminato più di una volta con un bicchiere di Starbucks in mano. Mi rendevo conto che era una cosa piuttosto stupida, ma la facevo, come la facevano tutti. Mi appecoravo.

Però deve esserci qualche ragione profonda che ci fa cascare nella trappola.

A fine ottobre mi è venuto in mente qualcosa ed è proprio allora che ho cominciato a scrivere questo post, o, per meglio dire, ho scritto il titolo di questo post, la cui scrittura ho rimandato per alcuni mesi. Il titolo era Starbucks e il tempo mal speso, che oggi ho deciso di modificare dopo che un paio di giorni fa ho letto a proposito della svolta anti-latte dell’azienda.

A fine ottobre, dicevo, mentre andavo al lavoro, ho incrociato una donna che beveva da un bicchiere stile Starbucks. Non so dove lo avesse preso, ma mi sono reso conto che la donna voleva essere efficiente, stava guadagnando tempo. Mi sono accorto, o forse mi era già capitato, ma senza sufficiente lucidità, che Starbucks, tra le altre cose, ci vende a caro prezzo l’illusione di guadagnare del tempo. Adesso, non è che uno debba per forza prendersi decine di minuti per far colazione, come a me piace fare, ma anche chi decide di dedicare alla colazione pochissimo tempo fuori di casa può benissimo fermarsi un paio di minuti al bar per bere un caffè o un cappuccino. Quando prendiamo un bicchiere usa e getta e lo portiamo fuori, invece, rinunciamo ad alcuni minuti per noi e li regaliamo a Starbucks.

Mi correggo: Starbucks e il SIM ci vendono a caro prezzo ciò che noi avevamo già.

8 pensieri riguardo “Starbucks: dell’ambiente oltraggiato e del tempo mal speso

  1. Il caffè lungo da portare in giro mai e poi mai, amche se fosse zero-waste. Voglio il mio bel caffè in piedi, one shot e via, come una dose di qualcosa di forte, come dicono di noi amici olandesi. Baretto sotto casa tutta la vita 😀

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  2. Il latte di soia solo perché mi piace molto nel cappuccino di orzo, tenendo conto che la soia scatena diversi interessi economici, con buona pace delle foreste e dei mezzi di sussistenza di altri popoli. E’ un lose-lose.

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      1. Della Valsoia ho provato solo gli yogurt (discreti) e gli hamburger (idem, ma presto mi stufano).
        E non c’entra, ma per assonanza ora mi hai fatto venire in mente l’Ovomaltina!

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  3. Quel caffè in piedi, magari neanche da fermi ma camminando, lungo o peggio brodoso, iperzuccherato, inzaccherato di panna, dentro un contenitore plasticoso, coperto da un tappo e ciucciato da una cannuccia… ecco, quel caffe così potrebbe essere la metafora di una società evoluta ma terribile. Forse irrecuperabile.

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    1. Beh, però c’è una via di mezzo, io ho portato la brodaglia in giro, ma rigorosamente nera e senza zucchero.
      Comunque in America ho visto un giorno – ma non da Starbucks – un milk shake in cui al latte erano aggiunti vari ingredienti tra cui molto gelato e molto burro di arachidi. Mi è venuto da pensare ai panini che, stando alle leggende, si faceva preparare Elvis Presley nei suoi ultimi tristi anni.

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