Essendo che resisterò. In difesa della sintassi.

Da anni resisto a “qual’è” con l’apostrofo, quindi figuriamoci se non sono pronto a una strenua lotta contro un mostro ben più minaccioso. Perché, ammettiamolo, trasformare in troncamento un’elisione non è così grave e se “qual è” alla fine diventasse “qual’è” me ne farei una ragione. In fondo non sono un purista, anzi, personalmente sarei favorevole alla caduta di alcuni cascami etimologici come le “i” di scienza e coscienza, che per me potrebbero diventare tranquillamente *scenza e *coscenza, liberandoci da improbabili pronunce che infilano il fonema /i/ laddove non andrebbe.

Certo, ancora oggi, nonostante l’avallo dei vocabolari, rimango turbato quando nelle giustificazioni leggo di “motivi famigliari” con quella “g” che oblitera l’origine colta dell’aggettivo. Ma, in fondo, per il parlante attuale il motivo famigliare è etimologicamente più motivato del motivo familiare e persino il *cavalliere suonerebbe molto più sensato del cavaliere, con buona pace del provenzale cavalier da cui proviene.

Invece a essendo che non sono disposto a cedere perché, se si mina la sintassi, ne va della possibilità di comunicare in maniera ragionevole. Essendo che potrebbe essere il cavallo di Troia per fare crollare l’ipotassi: a che pro usare le subordinate, se non le sappiamo più costruire?

Essendo che è un mostro sintattico che dilaga nel parlato e nello scritto. Nel giro di pochi giorni ho ricevuto un messaggio su WhatsApp che cominciava con “Ciao a tutti, essendo che oggi le nuvole non promettono bene stiamo valutando…” (scrivente italiano madrelingua) e un’email che spiegava “Volevo chiederle un colloquio con lei, ma essendo che lavoro tutte le mattine…” (scrivente madrelingua albanese: maledetti italiani che confondete gli albanesi, che parlano quasi sempre un italiano impeccabile). Non posso inoltre contare gli essendo che che ascolto e leggo da parte dagli alunni (ma quelli di terza ormai ci stanno molto attenti).

Che cosa c’è di mostruoso in essendo che? Semplice a dirsi: una subordinata o è esplicita e usa quindi un verbo all’indicativo, al congiuntivo, al condizionale, oppure è implicita e presenta il verbo all’infinito, al participio, al gerundio. “Essendo che lavoro” è un ibrido con un verbo al gerundio e uno all’indicativo.

Contro questa incapacità di scegliere un modo verbale invito tutti i colleghi e i parlanti di buona volontà a un’eroica resistenza. I posteri ce ne renderanno merito.

21 pensieri riguardo “Essendo che resisterò. In difesa della sintassi.

  1. La tua argomentazione non so se regge: chi utilizza questa mostruosità non sta costruendo una subordinata causale “mezza implicita e mezza esplicita”, ma piuttosto la sta sostituendo con due frasi, una reggente (essendo) e l’altra che dipende da questa (che lavoro tutte le mattine). Il problema forse sta nella scorrevolezza. Che ne dici?

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  2. Sono d’accordo con Laura. Posto che “essendo che” non è certo elegante, a me non sembra un mostro. Io lo sento come: stante il fatto che. Es. : per spiegare una situazione, un’impossibilità, che so, posso dire: “E’ che lavoro”. Se trasformo la principale di quella frase in una subordinata causale mi diventa: “Essendo che lavoro, non posso venire al ricevimento genitori”. Bruttarello ma non scorretto.

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      1. Che suoni o no avvocatesco non mi sembra il punto. Che sia bello o brutto nemmeno. Si tratta di stabilire se è grammaticalmente accettabile o scorretto. Ora, scorretto non è. Oppure dovresti dire che è scorretta la frase “E’ che devo lavorare”. Magari è così, ma a me non sembra.

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  3. Concordo, Alessandro. D’accordo, la lingua è una cosa viva e deve trasformarsi, ma questo suona proprio male. “Stante il fatto che” mi sa di ablativo assoluto, indipendente dal resto e lo userei; essendo che stabilisce un nesso con la principale utilizzando il gerundio, non il participio.

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    1. Certo che usa il gerundio: è la trasformazione in causale implicita della struttura “E’ che…”. Le causali implicite si fanno col gerundio.

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    1. Bella e interessante la voce della Crusca, che però, in un certo senso mi conferma nella mia idea. Da voce arcaica, le attestazioni recenti nel 2009 erano di registro in qualche modo ironico.
      Oggi è una forma pervasiva, come potrebbe essere l’intercalare “tipo”, il confondente “piuttosto che”, il dilagante “e quant’altro” e resto convinto che sia una forma di maldestra confusione tra forma implicita e forma esplicita. Magari non è totalmente scorretta (i causali “visto che..” e “dato che” in fondo sono dei participi passati + che + verbo), ma è cacofonica (è una mia idiosincrasia, è vero, ma vedo che non sono l’unico ad antipatizzare per essendo che).
      Aneddoto del giorno: stamattina durante un colloquio con la sorella diciannovenne di un mio alunno, l’ho sentito almeno due volte.

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    2. Abbiate pietà di un povero asino ma quando sento la Crusca metto mano alla fondina. La mal sopporto dai tempi del ginnasio. Da quando li conosco, non sanno che dibattersi tra la norma (?) grammaticale e l’uso, come criceti sulla ruota e vergando al riguardo risibili sentenze paracule. Non sanno nulla di teoria dell’informazione né di linguistica computazionale né di digital humanities. Dio mi perdoni: un ente inutile. Come peraltro dimostra la ormai compiuta colonizzazione dell’inglese sull’italiano.
      Qui, poi, ripescano il rottame ‘essendo che’ dalla lingua letteraria antica… Sostituite i nomi dei personaggi e figuratevi la sorte dello scolaro che scrivesse in un tema di Maturità: «Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia». Potrà accampare, il poverino, la paternità colta dello strafalcione?
      ‘Essendo che’ non è né giusto né sbagliato: è una cravatta di cattivo gusto.

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      1. E con questo Paolo Magrassi si è insediato sullo scranno della Crusca. (La quale Crusca non ripesca niente, dice che l’espressione si usa adesso, e fra i giovani – che non portano cravatte).

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        1. Ripesca il rottame nel senso che gli rende dignità esibendone il pedigree. Come se io, sbagliando la diteggiatura, suonassi una nota stonata e un cruscaiolo me la promuovesse come blue note o come citazione schönberghiana 😉

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        2. Ribadisco che la Crusca non rende o toglie dignità, si limita a constatare che è tornata nell’uso un’espressione possibile e già presente nella sintassi italiana. Che piaccia o no è un altro discorso – molto soggettivo e legato ai registri.
          Non credo che la Crusca difenda o sponsorizzi o attribuisca dignità a conciossiacosaché. Si limiterà a dire che un tempo era usato e significava questo o quello. Se poi la gente si rimette a usare conciossiacosaché, la Crusca registrerà questo cambiamento.

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