Prima di parlare di Invalsi è bene ricordare che…

Queste righe avrei potuto non scriverle, infatti, quando stavo accingendomi a farlo, ho letto l’ottimo articolo di Leonardo Tondelli, di cui condivido praticamente tutto. Il mio consiglio è quindi quello di leggere il suo pezzo e chiedo scusa se le mie considerazioni saranno molto simili a quelle di Tondelli persino negli esempi che porterò.

Da alcuni giorni si parla e si scrive parecchio a proposito degli esiti delle prove Invalsi: lo fanno i quotidiani – mi sembra che sul sito di uno dei più letti oggi sia previsto un dibattito in diretta -, lo fa la Fondazione Agnelli, il cui parere sulle questioni scolastiche è ritenuto importante, lo fanno tante persone sui social. Ci sarebbe da ridire non solo sui titoli, che – lo sappiamo – hanno la funzione di attrarre i lettori con allarmi sensazionali, ma anche sul modo in cui i dati Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) vengono interpretati dai commentatori. Tanto per dire: non è vero che metà dei diciottenni italiani sia semianalfabeta oppure non sappia fare 2+2; non è vero che le prove Invalsi misurano delle competenze (quelle per le quali alla fine dei cicli scolastici si ottiene un documento, la certificazione delle competenze, che accompagna la pagella), perché in realtà misurano delle abilità; è vero invece che ci sono regioni con risultati al di sotto della media nazionale, ma d’altra parte una media nazionale è fatta da chi sta sopra e da chi sta sotto la media. Quanto alla scoperta fondamentale di quest’anno, cioè che la didattica a distanza ha sfavorito i poveri, viene da dire “ma chi l’avrebbe mai detto”.

Prima di ogni considerazione bisogna però ricordare una cosa molto semplice: per lo meno dalla terza media in poi una gran parte degli alunni svolge le prove in maniera approssimativa e non è interessata a fare diversamente. Fino al 2017 le prove erano parte dell’esame e il loro esito concorreva al voto finale. In altre parole “facevano media”. Dal 2018 le prove si svolgono in primavera al computer (alla scuola primaria sono ancora cartacee) e non concorrono al voto di esame; semplicemente è necessario sostenerle (c’è un ampio lasso di tempo in cui farle), anzi, in questo anno eccezionale il mancato svolgimento non pregiudicava neppure l’ammissione all’esame. Chi è oppure è stato mio collega, ma forse anche chi ha semplicemente letto qualche mio pezzo di argomento scolastico, sa che non sono un insegnante con l’ossessione dei voti, uno di quelli che un giorno sì e l’altro pure minaccia di rifilare dei quattro. Cerco di insegnare agli alunni a studiare e lavorare bene non per il voto, ma per imparare, perché le cose van fatte bene, e alla domanda “ma prof per questo compito ci dà il voto?” controdomando “perché se non do il voto fai male il compito?”, tuttavia sono bravo ma non scemo e, soprattutto, non sono scemi gli alunni. Alla centesima volta che chiedono lumi, ma sempre con lo scopo di capire se “l’Invalsi fa media”, hai un bel dire che comunque devono impegnarsi per una prova che non fa media e della quale non sapranno mai i risultati. In un mondo in cui si sente parlare fino alla nausea di riconoscimento del merito, di eccellenze, di debiti e crediti, loro hanno capito alla perfezione e non si preoccupano di far bene perché non ottengono nulla in cambio. Puntualmente, quelli che fanno regolarmente più fatica, sono i più veloci a terminare le prove.

Ecco, le prove Invalsi ci dicono che gli alunni non sono del tutto scemi.

Poi interroghiamoci su tutto il resto, sui dati invalsi, sulla loro utilità, sull’opportunità di aver somministrato (questo è il verbo usato dal manuale Invalsi) le prove in questo 2021, ma ricordiamoci prima di tutto questa cosa: gli alunni difficilmente trovano un motivo per impegnarsi quando devono inserire la crocetta giusta e ancora meno quando devono scrivere quattro parole, hanno solamente voglia di allontanarsi dal monitor.

7 pensieri riguardo “Prima di parlare di Invalsi è bene ricordare che…

  1. “In un mondo in cui si sente parlare fino alla nausea di riconoscimento del merito, di eccellenze, di debiti e crediti, loro hanno capito alla perfezione e non si preoccupano di far bene perché non ottengono nulla in cambio.”
    Gran begli effetti produce, questa ossessione della meritocrazia…

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  2. Insegno, ho un intero repertorio, non proprio francesismi, per replicare sull’Invalsi. Ho intenzione di farci un articolo però.
    Mi piacerebbe seguirti. A presto, collega (io elementari, ne ho da mangiare di pastasciutta)

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  3. Ciao Alessandro, come vedi di tanto in tanto vado sui tuoi vecchi post e rileggo. Sui test invalsi, le tue osservazioni sono pertinenti e piene di buon senso (tipico delle persone razionali e di chi conosce la propria professione). A mio avviso, i dati invalsi, vanno letti anche su contesti più ampi. Performa meglio il D’Azeglio a Torino (cosi come in un altra ZTL di una città sopra i 200mila abitanti) o una scuola secondaria di secondo grado in una periferia di una città qualunque in Italia, la cui popolazione supera i 200mila abitanti?

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    1. Grazie per la rilettura, se essere letto è un onore, essere riletto è un doppio onore.
      L’Invalsi restituisce dati molto dettagliati con confronti tra le singole classi dei singoli istituti, confronti tra le scuole delle stesse zone, confronti tra regioni e via dicendo. Una volta ho partecipato a un corso di formazione sull’intepretazione dei dati Invalsi, ma dopo i primi due incontri sono stato sopraffatto dalla noia e ho gettato la spugna. Purtroppo i dati arrivano su test che non riesci a vedere mentre gli alunni li svolgono e ci parlano di alunni che non sono più con noi (per lo meno alla secondaria di primo grado). In più, come ho scritto, gli alunni sanno che i test sono irrilevanti dal punto di vista della valutazione. A questo punto, pur con tutto l’amore disinteressato che alunni e insegnanti possono avere per la rilevazione statistica utile per una fotografia del livello di preparazione degli alunni italiani, ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente disincarnato rispetto alla vita scolastica concreta. Ad aprile del terzo anno della scuola secondaria tutti gli alunni d’Italia si trovano a svolgere dei test dei cui esiti non sapranno mai nulla e dei quali noi insegnanti sapremo qualcosa con dati aggregati quando avremo dimenticato i nomi dei nostri ex-alunni.
      Fatico non poco a capire come tutto questo possa aiutarmi a farmi migliorare come insegnante.

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