In miniera!

Nonostante io abbia letto gli articoli che da destra e da sinistra hanno spiegato come quello di influencer possa essere un lavoro rispettabilissimo.

Sebbene io abbia ascoltato chi ha difeso Chiara Ferragni per qualsiasi ragione.

Anche se ho dato credito alle parole di chi ne ha esaltato lo spirito imprenditoriale.

Pur sapendo della beneficenza che lei e suo marito hanno compiuto.

Ancorché mi abbiano fatto constatare che creano molti posti di lavoro.

Benché Liliana Segre abbia detto che la tipa possa aiutare a divulgare la sensibilità dei giovani nei confronti dello Sterminio.

Con tutto che il direttore degli Uffizi abbia pensato che farla posare a mo’ di Venere di Botticelli avvicini i giovani italiani all’amore per l’arte rinascimentale.

Ecco, fatte tutte queste premesse, quando a pochi metri dalla scuola vedo un manifesto del genere, il moralista bacchettone che è in me torna al suo pensiero originario, più o meno riassumibile in queste parole: “brutta istigatrice e brutto istigatore del consumismo, andate in un posto a vostra scelta, purché sia un luogo dove non batte il sole”.

P. S. Siccome la parola influencer fa cagare, non mi sforzo neppure di tradurla in italiano.

P.P.S. Lo so che il “social media manager” è un’altra cosa, ma non riuscirete a convincermi che l’immagine del manifesto cerchi di acchiappare persone che hanno letto Eco e McLuhan.

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27 pensieri riguardo “In miniera!

  1. E’ una questione angosciante e ancorché controversa quella della traducibilità di influencer.
    Non esiste infatti in italiano una parola e nemmeno una perifrasi sufficientemente precisa.
    Nel mio piccolo formulo tre proposte ad uso di un futuro vocabolario:
    “Deconcretizzatore di prospettive culturali”
    “Facilitatore al consumo deselezionato del superfluo”
    “Aggregatore identitario generalizzante”
    (ovviamente ancora da riadattarsi in forma non binaria: io ancora non ho capito bene come si fa)

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      1. Però anche “aggregatore identitario generalizzante” non è male.
        “Influenzare”: trovo significativo – e terrificante – che non si specifichi, e in effetti non abbia la minima importanza, verso cosa o in che direzione si influenzi.
        Il punto è influenzare. Fine.
        Umanità: massa omogenea di elementi influenzabili – anzi: influenzandi. E non esiste vaccino.
        Propongo una nuova traduzione, magari un po’ forzata: untore.
        (Bellissime le premesse, con le variazioni sul tema concessivo 🙂 )

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    1. «L’irresponsabile influencer de ‘Il ritratto di Dorian Gray’, Lord Henry, ammette che “ogni influenza è immorale. Influenzare una persona significa darle la propria anima. Non penserà i suoi pensieri naturali, né brucerà con le sue passioni naturali. Le sue virtù non sono per lui reali. I suoi peccati, se esistono cose come il peccato, sono presi in prestito”. Nel Dorian Grey, essere influenzati significa essere dominati, sperimentare un’eclissi della personalità»

      The New Yorker, ‘A History of the Influencer, from Shakespeare to Instagram’ di Laurence Scott

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  2. Beh se pensi che esiste un corso di laurea per “Influencer”, certo offerto da università telematiche, ma pur sempre chiamato così. Sul tema sono combattuta, penso ci sia tanta disinformazione e tanti falsi miti, perché al di là delle meteore che influencer lo diventano per caso, gli altri hanno dietro quantomeno dell’impegno e dei piani studiati ad hoc. Funzionano perché c’è chi li segue, e da qui è nata una sorta di professione che si fa ancora fatica a collocare, perché in via generale ciò che fanno è assimilabile alla pubblicità

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        1. Poi cancellerò il mio commento al quale sto rispondendo qui perché è sciocco. Fa sembrare che io mi scagli contro il corso qui riferito sopra, il quale con ogni probabilità è invecemolto serio e coglie nel segno: colmare lo stato comatoso nel quale sono ibernati i NEET e, dando loro una spolverata di cosette cool e attrzzandoli con qualche competenza utile e pratica, offire loro opportunità di lavoro a breve termine.

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        1. https://didattica.polito.it/portal/pls/portal/sviluppo.offerta.cdl?p_sdu=37&p_cds=21&p_a_acc=2022&p_lang=IT#:~:text=analisi%20degli%20utenti.-,Il%20laureato%20in%20Ingegneria%20del%20cinema%20e%20dei,comunicazione%20%C3%A8%20in%20grado%20di%3A&text=pianificare%20le%20fasi%20di%20realizzazione,per%20prodotti%20crossmediali%2C%20etc.)%3B

          Ho letto la descrizione del corso di laurea (di 1° livello) che potrai trovare al link qui in alto, ma mi sono perso e quindi non so risponderti. Ci sono vari handicap a mio sfavore: 1) età, 2) 6 degli ultimi 12 anni passati usando la lingua italiana non più di un centinaio di ore all’anno 3) formazione scolastica prima, universitaria dopo e lavorativa ancora dopo, in cui se non hai un foglio excel davanti sei un analfabeta di ritorno. Se riuscissi a capirne tu qualcosa, pago io caffè o birra a tua scelta 🙂

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        2. Boh, di strettamente ingegneristico mi sembra di capire che ci sia qualcosa da informatici, mi verrebbe da pensare che forse si acquisiscono competenze utili per chi volesse occuparsi di effetti speciali.
          Faccio però fatica a capire se sia un corso di laurea serio, anche perché quello del cinema è un mondo complicato in cui esistono tantissimi lavori che non sono facili da comprendere per i profani. Un mio amico, per esempio, 20 anni fa si definiva “film maker” e faceva un po’ di tutto, da tenere la telecamera in mano a cercare case da usare come location a non so che altro.
          Non ho idea se a Torino – Museo del cinema a parte – un corso di laurea del genere ti apra davvero la strada per lavorare tra le macchine da presa o ti dia solamente qualche strumento per progettare siti internet. Il figlio di una mia collega l’anno scorso, finito il liceo, è andato a Roma alla Scuola nazionale di cinema, forse è lì che deve davvero andare chi vuol far del cinema la sua vita.
          Ad ogni modo, un caffè me lo faccio offrire volentieri, specialmente in un bar torinese, sperando che resistano i caffè storici e non facciano la fine del Caval d’ Brons che amavo tanto.

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        3. Alessandro grazie per la lettura di quel mappazzone e per la dettagliata spiegazione. Anche io ho serie difficoltà a credere sia un corso di laurea serio. Non ho mai frequentato gli ambienti del cinema, ma non faccio fatica a capire quello che mi scrivi. A Torino, finché ci ho vissuto (2010) esisteva una forte cultura del cinema, ma non sono in grado di dirti se esistano realtà lavorative focalizzate nella produzione di contenuti multimediali (immagino di si) o sulla costruzione di macchine (immagino di no). Come al solito, e sono controcorrente, credo che per lavorare come costruttore di siti o contenuti multimediali, non sia strettamente necessario frequentare una università, basterebbe fare una scuola ad hoc, ma so che sono un fuorimoda. Oggi giorno tutto deve passare dalla istruzione universitaria. Parlando seriamente, spero che gli ITS prendano un po’ piede in Italia, evitando di usare le università o come agenzie di collocamento, o come parcheggi. Spero di venire presto a Torino se sei li il caffé te lo pago più che volentieri, in centro.

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        4. Già. E io penso che sarebbe facilissimo, e a costo zero, rilanciare gli ITS: basterebbe conferire il titolo di dottore a chi ci si diploma. Ragazzi e famiglie ci si affollerebbero, come da anni già fanno coi finti licei.

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        5. Non so se parliamo della stessa cosa. Parlo di ITS e non ITIS. Realtà funzionanti in qui in Benelux e Germania. Sui titoli di dottore, con me sfondi 4 porte aperte su 3 ante. Solo in Italia si continuano a dare titoli ridicoli di questo tipo, quando all’estero si da solo per il PhD. E da PhD mi da molto fastidio vedermi equiparato in Italia a livello do titolo accademico ad un laureato triennale che nel mio settore a stento sa distinguere un controllo di processo da una linea semplice di impianto. La non mi stupisce di nulla. Solo in un paese dove sopravvive il mito del liceo classico, esistono queste terronate (anche al Nord).

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        6. Parlo di ITS, come te. ITS oggi conferisce un titolo di livello ISCED 4 mentre la laurea di primo livello è ISCED 5. Questo è discutibile, tant’è vero che in molti paesi, europei e non, le scuole come ITS danno ISCED 5. (Una delle ragioni per cui da noi si dice che i “laureati” sono pochi).

          Quanto al “mito” del Liceo classico (grammar school, [Fach]gymnasium), si tratta di corbelleria uguale e contraria al suo opposto. Di fatto è facile argomentare, anche con dati quantitativi, intorno all’efficacia dei licei classico e scientifico, ottenuta con una inclusività identica a quella delle altre Secondarie superiori. Il resto sono solo ciance sull’influsso malefico dell’idealismo crociano e, soprattutto, confusione intorno a cosa sia una formazione scientifica—che non significa compilare cataloghi o forgiare uomini e donne “di cacciavite”.

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        7. Dato che avevi scritto “rilanciare” e poi collegato il tuo pensiero ai finti licei, ho pensato che facessi un parallelo più con gli ITIS e non con gli ITS che in Italia in pratica non sono stati ancora lanciati del tutto. Sulla bontà di una scuola secondaria credo siamo più d’accordo di quanto non sembri. Se faccio autoselezione all’ingresso: alunni più portati allo studio, quoziente QI più alto, famiglie con maggiore propensione a considerare lo studio importante, famiglie con genitori entrambi laureati, case con disponibilità di volumi e libri superiori alle 500 copie, famiglie che possono permettersi spese per lezioni di recupero in privato e altre condizioni al contorno che si verificano spesso per chi fa licei di elite, c’è poco da dire. Il mito del liceo classico esiste, basta vedere su La stampa di qualche giorno fa, l’articolo che veniva pubblicato sui rampolli della Torino “bene” pre guerra mondiale, tutti con brillanti carriere alle spalle e con personaggi illustri. Parliamo del giornale della città ex capitale della industria italiana (non di Salerno, Bari o Messina). Mi sorprenderebbe che scuole di questo tipo, non avessero ragazzi brillanti e a distanza di 5 anni dal diploma, laureati “pieni” brillanti. Il mito di cui parlo è questa autoselezione che esiste nei centri delle grande città e nelle città di provincia e che fa credere anche alla gente non di elite nei poteri “taumaturgici” di questo tipo di formazione e scuola. Possiamo far finta che non esista, per carita’, possiamo dire che tutti quelli che criticano la scuola e parlano male del liceo classico e della sua formazione sono dei biliosi chiacchieroni di sull’influsso malefico di Croce, così come possiamo far finta di tante cose, ma resta il problema di fondo. Così come possiamo far finta che in Italia ancora nell’immaginario comune cultura scientifica sia equiparabile a “cacciavite” o “cataloghi da compilare” non esista come equivoco. Ma al di la del far finta, anche senza dati alla mano (chiedo venia se parlo senza grafici, spero di non cadere nel bias, o come dice spesso giustamente il titolare del blog, pregiudizio) non credo che l’idealismo crociano che ha attraversato la scuola, ma soprattutto la cultura italiana per molti anni, in questo frangente sia esente da colpe.

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        8. Non faccio finta. E so di che parlo. Per esempio so che nei test OCSE PISA i quindicenni italiani che stanno nei licei Cl e Sc del Nord surclassano i colleghi di quasi tutti i paesi, sia nella comprensione dei testi scritti sia nel calcolo sia nei quiz logici.

          So anche che coloro che mettono in conto a Croce/Gentile la “scarsa cultura scientifica” italiana non sanno minimamente cosa significhi cultura scientifica e ti sfido a fornirmi anche un solo controesempio. E c’è di più: oggi, a tanti decenni da quando il dibattito era in auge, costoro non saprebbero neppure citare le loro stesse fonti, sia perché non le conoscono (si trattava di intellettuali marxisti che—giustamente—usavano come metro la messa in ombra del povero Federigo Enriques et al., anche se alla fine Gentile pagò un prezzo forse anche più caro), sia perché non capirebbero un fico secco se per caso le dovessero leggerne i testi originali.

          Ignoro se ci sia stato un decadimento recente ma so che il liceo Cl italiano ha trasmesso approfonditamente le basi e gli strumenti della cultura scientifica, come hanno osservato generazioni di intellettuali italiani che hanno vissuto e insegnato all’estero, da Emilio Segrè a Massimo Piattelli Palmarini, da Laura Fermi a Vito Arecchi.
          Lasciando poi stare Enrico Fermi, Emilio Segrè, Giulio Natta, Ettore Majorana, eccetera, e limitandoci all’ultimo dopoguerra, vediamo facilmente che sono usciti dal Cl gli italiani più illustri in campo scientifico, come Fabiola Gianotti, le nostre due Medaglie Fields (Bombieri e Figalli), e Nicola Cabibbo, notoriamente deprivato del Nobel. Rubbia e Parisi hanno fatto lo scientifico, che differisce poco dal classico e, in fatto di basi scientifiche, è ancor meglio.

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        9. Hai ragione. Ma i geni non fanno tutti il liceo, sai? Marconi, per dire, non lo fece. Quasimodo era un perito industriale e Montale un ragioniere (e a 19 anni traducevano greco, latino, tedesco, francese, inglese). Qualcuno dei nostri genietti di mate e fisica avrebbe potuto fare un’altra scuola (come Faggin. Come Dirac!!): ma gli insegnanti e la famiglia li hanno diretti al liceo. Non perché era di moda, ma perché era un’ottima idea.
          Poi, va da sé che io qui faccia solo nomi famosi, per farmi capire. Ma se volessi o dovessi potrei citare molti oscuri nomi di persone normali, di mia personale conoscenza, che hanno fatto carriere magnifiche in sede scientifica uscendo dal Classico. Ma sono cose che tutti sanno.

          Un’obiezione a mio parere più fondata che potresti oppormi è semmai: il liceo è sempre stata scuola per rampolli di famiglie che potevano permettersi di continuare a farli studiare (dunque quei ragazzi sono statisticamente più inclini ad affeermarsi). Ed è vero. Però bisognerebbe le famiglie a far studiare i figli nelle migliori scuole. E la via per farlo sono le borse di studio che tanto ci mancano in Italia!

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        10. Ciò che difetta in Italia non è la cultura scientifica bensì quella quantitativa. L’andare in bambola con le percentuali. Il dire “una voragine di 2 metri” o “una massa di 11 cm” come se non si trattasse di volumi. L’ignorare se la farmacia sta a circa 50 o a circa 200 metri. Il non avere la più vaga idea dei punti cardinali. Eccetera. Ci sono posti, come l’Alaska o il Monmouthshire del Galles, dove la cultura scientifica è assente ma non si hanno quei dubbi lì, che da noi sono la norma…

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  3. Hai ragione, in quanto moltissimi di quei corsi sono specchi per allodole che prendono in giro la gente (non mi riferisco necessariamente a quello del poster). E al contempo esageri, perché non consideri che per fare l’influencer o il social media manager non è indispensabile leggere né Eco né McLuhan, così come un idraulico non deve necessariamente conoscere le equazioni differenziali o un elettricista le trasformate di Fourier.
    (Anch’io sarei per l’uomo/donna rinascimentale a tutto tondo, vitruviano. Ma come sai ci sono alcuni ostacoli che frappongono tra noi e quell’ideale)

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      1. 😁 Be’, Üli Steck era solo 2×2 ma… li mortacci sua!! La Nord dell’Eiger in due ore e poco più gattonando con picozze a ramponi a tutta birra …

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