Salire in cima all’Everest non è un diritto. Note di etica alpinistica.

Due mattine fa, aprendo i siti di alpinismo, si potevano leggere almeno 3 notizie che riguardavano la montagna più alta del mondo. La prima era che la francese Élisabeth Revol, dopo essere salita sull’Everest due giorni prima, tre giorni fa ha raggiunto anche la cima del Lhotse, la quarta montagna del mondo.

La seconda notizia riguardava il nepalese Nirmal Purja, che il 21 maggio è stato in vetta sia all’Everest, sia al Lhotse e tre giorni dopo era già in cima a un altro Ottomila, il Makalu. Infine la terza notizia, molto meno lieta: due mattine fa il britannico Robin Haynes Fisher, partecipante a una spedizione commerciale, dopo aver raggiunto la cima dell’Everest, a 8600 metri di quota si è sentito male ed è morto. Si tratta del decimo morto della stagione sull’Everest, che in questi giorni ha pure visto il record di persone salite in vetta in un solo giorno: circa 250.

L’ultima notizia, insieme alle foto della coda per arrivare in vetta, è uscita dai media alpinistici per arrivare a quelli generalisti, per esempio l’ho sentita anche nel sommario del notiziario di Radio 24. Sicuramente non approderà ai telegiornali la prima notizia che ho ricordato, quella sulla francese Élisabeth Revol. In realtà, come vedremo, questa sarebbe l’unica vera grande notizia alpinistica.

Coda sull’Everest (ph. Desnivel)

Non è la prima volta che anche sui media non specializzati circolano immagini delle incredibili file di alpinisti e questo fatto, unitamente alle molte morti in pochi giorni, suscita sicuramente sorpresa e anche sgomento. Diciamo subito, allora, che, quanto a vittime, siamo nella media. Lo so che è cinico tenere una contabilità del genere, ma è risaputo che l’alpinismo himalaiano è pericoloso. Statisticamente, salire sull’Everest non è meno pericoloso che gettarsi dal Monte Brento con la tuta alare. Tuttavia la modalità di buona parte delle morti avvenute in questi giorni costringe a porsi una domanda sulla preparazione delle persone che affrontano la salita, perché in ben 9 casi su 10 la morte è stata dovuta alla fatica e ad una permanenza troppo prolungata in prossimità della cima. Se in cima all’Everest salissero in un giorno 250 alpinisti preparati fisicamente e tecnicamente come Denis Urubko o Hervé Barmasse, ci sarebbe ugualmente un grande intasamento. Invece in questi giorni stanno sì raggiungendo la vetta molti sherpa nepalesi per i quali la salita sull’Everest è diventata quasi di routine come la salita al Monte Bianco per una guida di Chamonix, ma soprattutto ci sono centinaia di clienti con una preparazione alpinistica assai approssimativa. Non credo di allontanarmi molto dal vero, se dico che molto probabilmente non sono più preparati tecnicamente e fisicamente di me, che posso vantare poco di più di più di tre salite da capocordata in cima al Bianco per una delle vie normali, ma che per lo meno sono stato in grado di piazzarmi molto dignitosamente all’UTMB. Inoltre tutti questi non alpinisti, così come gli allenatissimi sherpa che li accompagnano e che attrezzano con corde fisse tutta la via di salita, usano l’ossigeno supplementare.

Quello dell’uso dell’ossigeno è un punto fondamentale che implica delle riflessioni di etica alpinistica.

Che cosa è l’etica alpinistica? Come sempre, quando si parla di etica, si parla di una materia complessa nella quale si possono trovare alcuni punti fermi e altri molto più scivolosi. Un punto fermo dovrebbe essere quello di non mentire a proposito della salita che si è effettuata. Alcuni grandissimi alpinisti sono stati sospettati di aver mentito e il sospetto ha compromesso in certi casi irrimediabilmente la stima guadagnata con tante altre salite. I casi più noti sono probabilmente – e non sto emettendo nessun verdetto di colpevolezza, sia chiaro – quelli di Cesare Maestri che secondo molti non avrebbe compiuto la prima salita assoluta del Cerro Torre nel 1959 e quello di Tomo Česen, sospettato di non aver davvero salito la parete sud del Lhotse nel 1990. Esistono, come è facile immaginare, molti altri casi: da quello probabilmente di natura psichiatrica dell’inglese Richard Simpson, fortissimo arrampicatore, ma anche mentitore seriale che perse tutti gli sponsor, alla celebre querelle che contrappose Walter Bonatti ad Ardito Desio, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli dopo la conquista del K2. Al contrario, ci sono esempi virtuosi: solo dagli ultimi anni mi piace ricordare Hervé Barmasse e David Göttler che nel 2017 hanno subito precisato di essersi fermati a 2 o 3 metri dalla cima dello Shisha Pangma, il più basso degli Ottomila, a causa dei pericoli oggettivi troppo elevati; oppure Markus Pucher che nel 2016 non ha avuto nessuna difficoltà a dire che la sua pazzesca salita invernale in solitaria al Cerro Torre era da da rinviare perché si era fermato a soli 40 metri dalla vetta. In altri casi le norme etiche sono più complesse. Nella scalata su roccia il grande dibattito sull’uso del chiodo a espansione è durato decenni, ma ancora oggi un punto caldo è quello del rispetto delle chiodature originali dei ripetitori. Per esempio, su El Capitan la rischiosissima Zenyatta Mondatta aperta dal più grande maestro della scalata artificiale, Jim Bridwell, oggi conta un numero di spit che ne abbassano notevolmente la pericolosità e che snaturano e banalizzano ciò che avevano realizzato Bridwell e compagni.

In ambito himalaiano il grande dibattito è da decenni quello tra stile alpino e stile himalaiano, cioè quello tra un approccio il più possibile leggero agli Ottomila (di nuovo, la via fu segnata più di tutti da Messner con la sua solitaria al Nanga Parbat del 1978, annus mirabilis) e un approccio pesante. La linea di demarcazione non può essere netta perché certe salite, soprattutto le invernali agli Ottomila, sono difficilmente pensabili senza lunghi assedi e campi intermedi. Tuttavia, proprio le invernali degli alpinisti polacchi e di Simone Moro ci mostrano che oggi un alpinismo d’avanguardia prevede che a montare i campi siano proprio gli alpinisti che tenteranno di raggiungere la vetta e, comunque, non dei portatori nepalesi o pakistani. Casomai un pakistano come Ali Sadpara è stato un compagno alla pari di Moro e Txikon nella prima invernale del Nanga Parbat. L’altro grande dibattito è quello sull’uso dell’ossigeno. O meglio, in realtà non ci sarebbe quasi dibattito, perché la via ormai è chiara.

È sacrosanto che la fase iniziale della conquista degli Ottomila sia avvenuta con l’ausilio delle bombole d’ossigeno, anche se va ricordato che già il Nanga Parbat fu conquistato senza bombole. Certo, lo conquistò Hermann Buhl, uno dei più grandi alpinisti di ogni tempo, uno per cui gli unici paragoni sensati possono essere quelli con Whymper, Bonatti, Messner e pochissimi altri. Nel 1978 Messner e Habeler hanno poi dimostrato che si può salire sul Tetto del mondo senza bombole. Sono passati 41 anni e molti altri sono saliti sull’Everest senza ossigeno, ma, ancora oggi, la maggior parte delle persone sale usando le bombole. Credo che quest’anno quelli che sono arrivati in cima senza bombole si contino sulle dita di una mano, una percentuale infima. È cosa da mostri di allenamento salire in cima all’Everest senza ossigeno supplementare? Forse sì. E se così fosse? Al di là dei casi estremi di alpinisti dotati di qualità fisiche straordinarie come Marc Batard, Hans Kammerlander e Kilian Jornet, che sono stati capaci di salire e scendere in tempi sconcertanti, è indubbio che salire in cima all’Everest senza ossigeno sia cosa per pochi. E allora? Anche salire la Dawn Wall su El Capitan in libera è una cosa riuscita a 3 soli arrampicatori: o sei bravo come Tommy Caldwell, Kevin Jorgeson o Adam Ondra, oppure niente da fare.

L’Everest deve rimanere un sogno solo per i più forti?

Perché no? In fondo gli alpinisti e le alpiniste (come l’italiana Nives Meroi) in grado di salirlo senza ossigeno supplementare ci sono.

Perché no? Perché l’Everest è un affare. È un affare per il Nepal che vende a caro prezzo i permessi di salita; è un affare per le agenzie di guide alpine soprattutto americane che offrono la salita all’Everest un po’ come si potrebbero offrire la maratona di New York o l’Iron Man; è un affare per gli sherpa nepalesi che trovano una fonte di guadagno. Tenendo conto che in questa somma di interessi forse l’anello più debole e che corre più rischi è quello degli sherpa nepalesi, il mio discorso elitario può sembrare molto crudele. In realtà sarebbe pensabile che ai ricchi di tutto il mondo che vogliono respirare l’aria dell’Everest si proponesse di scalare vette più basse, tagliando così una bella fetta del problema dei rifiuti che affligge l’Everest. Ricordo che già negli anni Ottanta il Colle Sud, a 8000 metri di quota sulla via nepalese normale, era noto come la più alta discarica del mondo per via del materiale – bombole in primis – lì abbandonato. Ci si riuscirà? I ricchi semialpinisti se la sentiranno di rinunciare a un sogno del quale sono all’altezza solo barando? Probabilmente no. Così gli unici argini saranno i numeri annui di permessi concessi dal governo nepalese e, in qualche caso, il buon senso o la casualità che spingono a cercare di fermare i tentativi di record più bizzarri. Ne volete un assaggio?

Gli ultraottantenni giapponesi e nepalesi sono già saliti in vetta all’Everest e naturalmente si sono già fatti sotto degli ultraottantenni ancora più ultra e con ancora più sherpa e più bombole al seguito.

A qualche amputato di una gamba è già balzato in testa di progettare una salita. Adesso non è che io voglia negare il gusto di sognare e salire sui monti a nessuno, ma un amputato che vuol salire sull’Everest quante vite di sherpa è disposto a mettere in gioco per coronare il suo sogno? È crudele dirlo, ma nella zona della morte occorre essere veloci con le proprie gambe.

Nel 2012, dopo una vicenda un po’ ingarbugliata di permessi prima concessi e poi negati, il biker Vittorio Brumotti non partì neppure da Katmandu con il suo progetto di portare (leggi: farsi portare) la bici in cima all’Everest per poi saltarle in groppa. Per far cosa? Non certo per fare una cosa grandiosa come Hans Kammerlander che scese con gli sci. Ben che vada, sarebbero forse stati filmati alcuni saltini in vetta.

Ecco, salire le montagne è, come tutte le attività umane, anche una questione di cultura. Senza una cultura alpinistica si arriva al supermercato, a Disneyland in Himalaya.

Torniamo adesso alle altre due notizie che avevo citato in apertura.

Mentre scrivo, Nirmal Purja magari sarà già arrivato in cima a un altro Ottomila, chissà, visto che il suo obiettivo è quello di salire i 14 ottomila in soli 7 mesi. Per farcela si è spostato in elicottero dal campo base di Everest e Lhotse a quello del Makalu e per salire Everest e Lhotse nello stesso giorno è verosimile che gli sherpa, che hanno comprensibilmente un forte spirito corporativo, abbiano bloccato tutti gli alpinisti che avrebbero rischiato di intralciare la sua corsa. Intendiamoci, io non ho nulla contro le corse in montagna. Di più: le adoro fin da quando da bambino leggevo di Jean Marc Boivin e da ragazzino mi illudevo di trasportare nella dimensione del sentiero gli exploit di Profit ed Escoffier. E so che anche loro usavano l’elicottero per spostarsi dalle Grandes Jorasses all’Eiger. Però ci sono dei limiti. Mi piace l’idea di Kilian Jornet che per il suo record sul Cervino parte di pomeriggio da Cervinia per non essere intralciato e non intralciare a sua volta gli altri alpinisti. Mi piacciono Batard, Kammerlander e Jornet che salgono a tempo di record ma senza bombole. In tutta franchezza, la corsa di Nirmal Purja ha lo stesso fascino dello scatto del ciclista dopato sul Mortirolo.

Mi entusiasma invece la francese Élisabeth Revol, nona donna al mondo a salire in cima all’Everest senza ossigeno e prima donna a concatenare Everest e Lhotse. Lei sì che è un’alpinista!

3 pensieri riguardo “Salire in cima all’Everest non è un diritto. Note di etica alpinistica.

Lascia un commento