Monte Rosa Skymarathon: troppo facile se ti alleni

Avevo cominciato a scrivere questo racconto sulla gara pochi giorni dopo averla conclusa. Nel frattempo aspettavo che venisse pubblicata qualche foto della gara, ma non ne uscivano, se non poche degli atleti di punta. Così il pezzo è rimasto a sonnecchiare tra le bozze. A un giorno dall’edizione 2024, quindi due anni dopo la mia gara, ho deciso che in fondo sarebbe valsa la pena di concludere il pezzo e pubblicarlo.

Don’t try this at home

la voce della coscienza

Il titolo è diseducativo, lo so, ma riassume efficacemente come son riuscito questa volta a concludere la Monte Rosa Skymarathon, che dopo i fuori tempo massimo del 2019 e del 2021 era diventata la mia bestia nera. Ma, come si suol dire, andiamo con ordine.

Dopo il fallimento (fallimento agonistico, perché comunque riuscire a salire in 6 ore da Alagna alla Capanna Margherita nel complesso della mia vita è una cosa bellissima) dell’anno scorso, avevo scritto che stavo già pensando a riprovarci con Alessandro, anche lui rimasto fuori tempo massimo per un pelo.
A gennaio allora ci iscriviamo, poi attendiamo la decisione degli organizzatori sulla nostra candidatura: siamo dentro.
A questo punto non dovrei avere più scuse e dovrei cominciare ad allenarmi seriamente, ma quest’anno è, non lo so com’è, va un po’ così e non decido mai di rimettermi ad allenarmi. Tra impegni vari e molte scuse non partecipo a nessuna gara e non mi aggrego a nessuna uscita in quota, non salgo nessun Breithorn e nessun Gran Paradiso adducendo le scuse più improbabili, mentre Alessandro, a parte una storta, fa le cose come si deve e si allena. Tutto questo alimenta i miei sensi di colpa e, come dice un amico profondo e dotto biblista, il senso del peccato viene da Dio, mentre quello di colpa viene dal diavolo, così io diabolicamente continuo a non far praticamente nulla e a sentirmi in colpa. Intendiamoci, anche se non mi alleno, la sedentarietà assoluta non mi appartiene, una persona senza patente e che non resiste più di un paio di minuti ad attendere gli autobus comunque finisce per muoversi parecchio e a fare molte salite a Genova, ma io non devo essere semplicemente in salute, devo essere allenato per una gara difficile. Allora due settimane prima della gara eccomi con pochissimi chilometri nelle gambe, così pochi che mi vergogno a scriverlo, ma rimando i curiosi a cercare il mio profilo su Strava. Dicevo, eccomi due settimane prima della gara verso le 5 del pomeriggio al Passo del Faiallo, con la speranza di fare un allenamento piacevole. Tira pure un po’ di aria, così non patisco troppo il caldo e arrivo in cima al Rama sempre correndo, anche se più lento del solito. In discesa, nonostante il poco allenamento, ho un buon occhio, riesco a non mettere praticamente mai le mani per terra, neppure nei passi dove è normale appoggiarsi, ma sento male agli alluci. Le scarpe che sto usando sono di taglia precisa, ma non mi avevano mai dato così tanto fastidio, forse si tratta di qualche postumo del Tor, chissà, fatto sta che devo scendere non proprio con il freno a mano tirato, ma un po’ controllato sì. Arrivato poi all’asfalto, rinuncio quasi subito a correre e camminando raggiungo Cogoleto con un bel po’ di chilometri di asfalto e tentando anche l’autostop, pratica disperata in tempi di Covid. Nessuno infatti mi carica e, finalmente in stazione, ho il tempo di prendere qualcosa da bere e mangiare e, una volta arrivato a casa, di compiere il mio dovere di elettore recandomi al seggio.

Il dolore agli alluci non mi lascia tranquillo, ma almeno mi offre la scusa per continuare a non allenarmi, fino a sabato 18 giugno, giorno in cui faccio l’unica cosa sensata della mia preparazione.

3×4000. Venerdì sera vado a Milano a casa di Alessandro con l’idea di fare una salita veloce alla Capanna Margherita partendo da Punta Indren. L’obiettivo è quello di fare un po’ di quota, giusto per abituare minimamente il nostro fisico non così adattato come quello di chi vive ai 2000 metri di Cervinia. Come l’anno scorso sul Breithorn, verrà con noi anche il suo primogenito Emanuele, che da ragazzo serio si allena, infatti è in accappatoio addormentato stremato dopo l’allenamento pomeridiano di tennis alle temperature tropicali del 2022.
Sveglia al mattino presto, e via verso la Valsesia. Ad Alagna non prendiamo neppure la prima funivia, tanto che cominciamo a camminare alle 9 su un ghiacciaio già ricoperto di pozze d’acqua. Nel giro di pochi minuti riesco ad andare a bagno con il piede, che così si inzuppa prima del tempo, e ad appoggiarmi con tutto il peso su un bastoncino che danneggio nel meccanismo di regolazione dell’altezza. In pratica farò tutta la salita con un bastoncino funzionante e l’altro quasi sempre inutilizzabile.
Escludiamo subito di salire per il canalino che si percorre durante la gara e che conduce sopra il rifugio Gnifetti evitando quindi anche il Mantova, perché senza dei veri ramponi sarebbe assai rischioso, senza le corde fisse che vengono sistemate in gara, così allunghiamo leggermente il percorso rispetto a quello della gara e passiamo per le roccette che ci fanno sbucare tra il Mantova e il Gnifetti. Finite le pietre e le roccette, dove do il meglio di me quanto a velocità, sul ghiacciaio sperimento tutto il mio scarso allenamento e vado al traino della famiglia Ursino, sia pure con dignità. Incredibilmente siamo anche così saggi da non restare in maniche corte e teniamo i manicotti o le maniche lunghe, evitando di ustionarci le braccia.

Il ghiacciaio non è in condizioni meravigliose, i crepacci sono tanti e da superare con attenzione, comunque dopo circa tre ore siamo in cima. Siamo andati piuttosto svelti e il panorama è stupendo. Ce la pigliamo comoda e restiamo nella Capanna per un’ora, Alessandro ed Emanuele mangiano, io prendo un tè e non mangio perché i veri uomini in montagna digiunano.

Usciamo dalla Margherita e la giornata è troppo bella per non aggiungere qualche altra vetta, così, lì di fronte, saliamo sulla Zumstein, di pochi metri più alta. Alessandro non c’è mai stato e per Emanuele la breve cresta finale, sulla quale tiriamo fuori le piccozze, ha anche un bel sapore alpinistico che non aveva mai provato. Di nuovo vista incredibile con la Punta Dufour e la Nordend, le due cime più alte del Rosa, proprio davanti a noi.
Scendiamo e, usciti dalle difficoltà della cresta, vediamo una cordata di scialpinisti che salgono: uno si toglie gli sci, l’altro, che continua a tenerli, a un certo punto esclama “Alessandro!” È Paolo Rubaldo, graditissimo incontro, non del tutto una sorpresa, perché dove c’è una bella gara da correre o da preparare Paolo Rubaldo è facile che ci sia. Chiacchieriamo, anche lui gareggerà e mi presenta al suo amico descrivendomi come “quello del blog”.

Adesso dobbiamo cominciare a fare i conti con l’orario dell’ultima discesa della funivia: ci sta un’altra cima? Nonostante la neve molle, il Balmenhorn con il Cristo delle vette è troppo vicino per non raggiungerlo, così, per la prima volta in vita mia, lo salgo. A dir la verità, è un Quattromila che sali in discesa, a parte i pochi metri finali di roccette attrezzate.

A questo punto cerchiamo di non perdere più tempo e, soprattutto, cerchiamo di restare in piedi e di non finire nei crepacci mentre cerchiamo di correre nella neve marcia. Dalla Zumstein sto continuando a usare la piccozza per evitare di spaccare l’altro bastoncino ogni volta che sprofondo e compio movimenti strani. Su un ghiacciaio che ormai lo scioglimento ha trasformato in una specie di rapida, arriviamo a Punta Indren circa 7 ore dopo che l’avevamo lasciata con la soddisfazione di esserci goduti dei panorami strepitosi sulla Vallée e sulla Svizzera, con la sensazione di essercela cavata bene in alta quota e con la sensazione (e il timore) che quando Emanuele nel 2024 avrà 18 anni, ad Alessandro toccherà ritornare a provare la gara.

Squadra che perde si cambia. Inutile dire che anche dopo la tripletta di Quattromila continuo la mia tattica sconsiderata e recupero le forze, cioè non corro. Al martedì arriva una grande novità: mi telefona Andrea, il compagno di cordata del 2019 e del 2021, e mi dice che è stato convinto a subentrare in extremis per sostituire il compagno di Alessandra (scusate la scarsa fantasia nei nomi). Alessandra la conosco solo tramite messaggi su whatsapp, è una genovese che è stata preparata da Alberto Canessa, che sa bene come si fa ad arrivare in fondo nel minor tempo possibile – lo ha fatto l’anno prima -, e che mi aveva contattato per fare qualche allenamento insieme, impresa quasi impossibile, visto che non mi sono allenato. La notizia però mi gasa, forse è la volta buona che sia io sia Andrea arriveremo in fondo grazie a un rimescolamento delle squadre e così venerdì eccoci pronti all’ora di pranzo per andare di nuovo ad Alagna.

Con Andrea e Alessandra arriviamo presto ad Alagna, dove vediamo per strada uno che corre tranquillo e fa qualche esercizio, come un corridore della domenica, con la piccola differenza che è Tadei Pivk, che, per chi non lo sapesse, ha vinto una coppa del mondo di skyrunning, la Zegama-Aizkorri e la Dolomites SkyRace. Mangiamo qualcosa – io un leggero panino con il lardo – e poi ci separiamo per andare ognuno nella stanza prenotata per la notte. Alessandro ha trovato posto nella Casa Smitt, un edificio liberty dagli arredamenti d’annata.

Nell’attesa pomeridiana passeggio per il paese e cerco, senza trovarle, delle rondelle per i miei bastoncini.

In giro per Alagna

Alle 18 ci si ritrova tutti al palazzetto per il briefing pre-gara, che per una gara del genere è molto più di una formalità, specialmente quando le temperature elevate nell’ultima settimana hanno aperto tanti di quei crepacci che ci sono andate dentro tre persone. Veniamo informati di un importante cambiamento dell’itinerario tra Punta Indren e il rifugio Gnifetti: il couloir quest’anno non è praticabile e quindi lo aggireremo per le roccette che la settimana prima abbiamo già percorso, mentre al ritorno, per evitare incroci complicati con chi sale, si seguirà un giro ulteriormente più ampio passando per il Rifugio Mantova. Cambiano anche i cancelli orari, che vengono leggermente allargati, aggiungendo anche un quarto d’ora in salita per il passaggio a Punta Indren. Senza la neve dai 2400 ai 3200 metri che normalmente si incontra, infatti si può camminare più veloci, ma il percorso non può essere sempre diretto, ma deve seguire il sentiero in mezzo a una pietraia piuttosto accidentata.

La presentazione degli atleti più blasonati è una rassegna di nomi importanti e fisici molto asciutti, di fronte ai quali ci si sente come gli anni precedenti dei lenti ciccioni. Pazienza, tanto il nostro obiettivo è quello di arrivare in fondo.
Alessandro intanto arriva, si va fare la spesa per cena, si cucina e poi a nanna.

Si parte. Le prime centinaia di metri della gara consistono in una circumnavigazione di Alagna, così che il gruppone si sgrani un po’. Astutamente con Alessandro decidiamo di partire forte per non rimanere imbottigliati sul sentiero. Il mio gps non aggancia subito il satellite, così non ho un riscontro preciso della velocità del primo chilometro, ma giuro che ad un certo punto, mentre siamo in piano, sento dire da qualcuno 3’50”. Ottimo, significa che sarò già schiantato all’inizio del sentiero, un’andatura del genere faticherei a tenerla da allenato, figuriamoci nel mio stato di forma. E infatti la salita è una cosa pietosa: mi superano in continuazione e sono in affanno. Tra le altre persone, mi supera Alessandra, che è leggerissima e che – dirà Andrea a fine gara – lo ha trainato come se fosse uno ski-lift. A rendere ancora più penosa la mia salita è la sveglia del telefono che comincia a suonare. Mi sono dimenticato di disattivare quella che ogni giorno suona alle 6 e non posso certo fermarmi ad estrarre il telefono dallo zaino, così aspetto che smetta. Il guaio è che ogni dieci minuti, per un’ora intera, la sveglia ricomincia. E poi alle 8 c’è l’altra sveglia, quella del fine settimana. Meno male che nessuno resta per tanto tempo vicino a me, perché mi superano tutti. Beh, il passo di qualcuno per un po’ lo reggo, ad esempio ci sono due ragazze svedesi con le quali attacca bottone un altro concorrente che però, a causa di fraintendimenti linguistici, pensa che siano spagnole, rallegrando il mio calvario.
La grande differenza rispetto alle edizioni passate è la drammatica mancanza di neve: se negli anni prima ai 2400 metri della Bocchetta delle Pisse calzavamo i ramponcini, adesso non c’è un filo di neve. Prima di Punta Indren calpestiamo alcuni metri di un nevaietto e per il resto tante pietre, cosa che a me divertirebbe anche, se non fosse che sono scoppiato e che lo scioglimento dei ghiacciai è uno dei pensieri che più angoscia la mia vita. A Punta Indren, comunque ci arrivo con grande sollievo di Alessandro che mi sta pazientemente aspettando.

Quando è che la fatica, la lentezza e la paura di non farcela diventano desiderio di ritirarsi? Direi intorno ai 3700 metri. Ecco, qui aprirei una parentesi per far capire che tipo di gara sia questa: hai salito 2500 metri di dislivello senza mai tirare il fiato, sentendoti sempre al limite, eppure devi cercare di andare più forte possibile fino a 4500 metri di quota. Non è che sia roba da supereroi, per carità, però è sicuramente roba da sputare l’anima. Chiudo la parentesi e torno a me che più che sputare forse vomiterei dalla fatica e mi dico che se sono arrivato a 3700 metri, tanto vale tener duro fino a 4000. A 4000 ci arrivo e allora mi dico che ai 4200 del colle del Lys varrà la pena arrivarci, almeno potrò fermarmi guardando la nord del Lyskamm. Al colle del Lys, che è uno dei posti più belli dove io sia mai stato e dove ho la fortuna di arrivare per la settima volta nella mia vita, evidentemente accade un miracolo. La corda sempre tesa di Alessandro che tira e un ritorno di energia mi consentono di riuscire a spingere nel tratto di falsopiano e anche in salita. Siamo al limite del cancello orario e dobbiamo superare qualche cordata senza troppi complimenti (infatti qualcuno brontola) e senza avere il tempo di coprirci. Non è freddissimo, ma tira vento e a 4400 metri il vento in faccia non è piacevolissimo, quando non hai il tempo di tirare fuori la giacca e alzare il cappuccio. La mia parte del corpo esposta al vento è un po’ intirizzita e comincio a sragionare, immaginandomi emiparetico con la parte sinistra della faccia irrimediabilmente bloccata in una smorfia per il resto dei miei giorni.

Ce la facciamo! Eccoci in vetta, con il tempo giusto giusto di girarci e cominciare a scendere. Nel tratto più ripido e un po’ gelato sotto la Punta Gnifetti una corda fissa permette di scendere in relativa sicurezza nonostante i ramponcini. La corda è comunque gelata e i guanti non fanno molta presa, perciò la nostra è una sorta di caduta controllata. Le gambe girano, la neve non è troppo molla e l’ottimismo ci pervade, potremmo anche farcela a ritornare a valle. Prima di arrivare all’ultimo cancello orario, l’evento più rilevante è una mia caduta sulle pietre poco prima di riprendere l’ultimo pezzetto di ghiacciaio prima di Punta Indren. MI viene da svenire, sento nausea e dolore, ma riesco a riprendermi e ci siamo. Sì, siamo dentro, ora basta scendere e considerando che ci aspettano quasi 800 metri di pietraia in discesa mi sento tranquillo. Dico seriamente, sono nel mio, qui mi illudo di essere agile come Kilian. Alessandro invece deve stare attento a preservare la caviglia e scende più cauto mentre io faccio lo splendido. Sul sentiero dopo la Bocchetta si può andare più rilassati, ormai ci sentiamo in una cavalcata trionfale sullo stile di quando arrivi a Chamonix, superiamo anche una copia in cui uno dei due ha un fisico da rugbista (accidenti, possibile che mi sia stato davanti fino a qui uno che peserà 15 chili più di me?) e – sì – questa volta il traguardo lo tagliamo! Pure Andrea e Alessandra ce l’hanno fatta. Sarebbe ingiusto parlare di maledizione sconfitta, preferisco parlare di agognata benedizione.

Appendice sull’attrezzatura. Chi non è fissato con l’argomento può benissimo saltare questa parte, che si apre con uno dei luoghi comuni dei post alpinistico-corsaioli, cioè la foto d’insieme del materiale, alla quale cerco di dare un tocco di personalizzazione inserendo anche le mutande.

E allora parto dalle mutande, delle storiche Falke che indosso dal 2008. Non fraintendetemi, non è che non mi cambi le mutande da 14 anni, ma dal 2008, appunto, praticamente in tutte le gare e quando scio di fondo, queste sono il mio intimo d’elezione. Le pagai un bel po’, ma, evidentemente, il tessuto e gli elastici erano e sono ancora di ottima qualità. Ah, durante il Tor des Géants in effetti non le avevo mai cambiate.
Continuo con l’abbigliamento e attrezzatura indossati fin dalla partenza. Calze lunghe da sci Accapi, sottili ma calde, normalmente le uso per sciare di fondo.
Pantaloni anch’essi storici, dei Raidlight che uso per lo meno dall’UTMB del 2011. Rispetto alle edizioni scorse direi che molte più persone hanno optato per i fuseaux al posto della tuta da scialpinismo: condivido la scelta sia perché la tutina sarebbe troppo calda nella prima parte di gara, sia perché non ho tutina da scialpinismo.
Maglia termica Helly Hansen in merino e polipropilene (il dryarn reso celebre da Marco Olmo, per intenderci). Nelle scorse edizioni avevo sempre usato la maglietta Sisport e i manicotti, ma quest’anno ho deciso che la maglia lunga poteva andar meglio, visto che si partiva prima e la temperatura era sufficientemente bassa.
In testa buff della Buff indossato come bandana larga per proteggere le orecchie e una parte del cranio dal vento e dal sole; sopra il buff occhiali Decathlon, perché mi piacerebbero gli occhiali fighi, ma tendo a romperli o dimenticarli in giro.
Ai piedi, come al solito, le Salomon S/Lab XA Alpine, già utilizzate nelle edizioni precedenti. Ho notato che, rispetto agli anni scorsi, ci sono molti più atleti che usano scarpe normali da trail e ghette. Resto convinto che le scarpe con ghetta integrata come le mie abbiano il vantaggio non solo di rimanere con la ghetta molto aderente, ma anche di essere più efficienti sul ghiacciaio grazie alla maggiore rigidità. Inoltre quest’anno la ghetta ben chiusa e la relativa rigidità proteggevano il piede e impedivano a sassolini e sabbia di entrare nella scarpa durante la lunghissima pietraia di Punta Indren. Si tenga conto che, se entra qualcosa nella scarpa, difficilmente in una gara del genere si ha la possibilità di fermarsi e svuotarla.
Imbrago Petzl Altitude, leggero come una piuma. Tutti partono con l’imbrago indossato, nonostante ci si leghi dopo duemila metri di salita, e tutti partono anche con la longe da ferrata già attaccata all’imbrago.
In mano ovviamente i bastoncini. Una settimana prima, come già scritto, avevo danneggiato i miei, quindi ho preso quelli di mia figlia, dei Kong di carbonio telescopici, molto leggeri, forse non sufficientemente rigidi per il mio peso, e senza rotella, cosa che mi preoccupava un po’, ma che non mi ha creato problemi, viste le buone condizioni della neve, quasi mai molla.
Il resto era sistemato nello zaino, un Dynafit Ultra 15. Dentro allo zaino sono rimasti sia i pantavento impermeabili Haglöfs molto leggeri e senza cerniere laterali (non li ho ancora usati, ma ho dovuto sostituire i vecchi calzoni distrutti al Tor), sia la giacca Raidlight leggerissima e collaudatissima, sia il berretto da fondo di microfibra. I pantavento, da quel che era stato detto al briefing pre-gara, forse non ero nemmeno tenuto a portarli, ma averli con me mi dava sicurezza; quanto alla giacca e al berretto, come ho già spiegato, non è che in cima non ce ne fosse bisogno, ma non avevamo tempo per tirar fuori nulla dallo zaino.
A Punta Indren ho ovviamente calzato i microramponi Salewa, più pesanti dei Nortec (li avevo, ma nel 2019 ne persi uno in discesa senza accorgermene), ma forse leggermente più stabili e con le punte un po’ più lunghe. Sempre a punta Indren ho rinnovato dei guanti Mammut con membrana antivento Goretex Infinium, che ho scoperto che ha sostituito il vecchio Windstopper. Il palmo dei guanti ha dei rinforzi che speravo fossero più grippanti, ma in effetti sulla corda fissa sotto la vetta ci sarebbero voluti dei guanti decisamente più alpinistici. Ad ogni modo, non ho sofferto il freddo alle mani neppure quando presso la cima tirava vento (e voglio vedere, visto che i guanti hanno la membrana antivento!)
I 10 metri di corda da 8 mm sono nella foto, ma in realtà fino a Punta Indren se li è portati Alessandro.
Per l’acqua (con i sali) avevo le due soft flask Salomon infilate negli spallacci, mentre il cibo, che non compare nella foto, consisteva in 3 gel che ho mangiato, due barrette rimaste nello zaino e una bustina di carboidrati rimasta anch’essa nello zaino.
Nella foto non compaiono neppure l’indispensabile telo termico e il telefono con cui ho scattato la foto.

Sezione Rino Tommasi. Pochi giorni dopo la gara Alessandro mi manda un Whatsapp documentatissimo che riporto per intero.

Finisco con queste pillole autistiche sulla classifica ….😉
– Classifica salita a Indren: 116esimi. A Indren ne saltano 32…
– Classifica Salita split Indren – Margherita: 110emi
– Classifica totale Salita: 111esimi. Alla Margherita ne saltano altri 14. Il nostro, dei classificati finali, è il tempo più alto.
– Classifica split Margherita – Indren: 36esimi!!! A Indren salta ancora 1 squadra
– Classifica split Indren – Alagna: 70esimi
– Classifica Discesa Margherita – Alagna: 59esmi!!
I numeri parlano chiaro …..

Se prendi le prime 60 squadre in discesa (noi 59esimi), solo una squadra oltre a noi ci ha messo più di 9 ore …(9.05).
Se prendi lo split Margherita- Indren, delle prime 36 squadre (noi 36esimi), solo 7 squadre han fatto più di 8h, e solo 1 più di 9 (noi)….
😉
Il capolavoro lo abbiamo fatto lì…

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